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Sudafrica: il miraggio dei Nama PDF Stampa E-mail
Scritto da Fabio   
Accanto ai discendenti dei Boeri, vivono nei loro piccoli villaggi, gli ultimi rappresentanti di un popolo che in tempi antichi fuggì dalla Namibia per contrasti tribali, e si insediò nel Namaqualand, una regione semidesertica del Sud Africa, confinante con la Namibia.

Nel mese d’agosto, con le prime piogge, come d’incanto questa regione si trasforma in una moltitudine di colori, con immense fioriture, in contrasto con le piante grasse più grandi del mondo.
In queste terre vivono gli ultimi Nama. Pochissimi anziani sono in grado di tramandare le tradizioni orali della loro etnia e di parlare ancora il linguaggio tradizionale.


 
Insieme ad una mia amica giornalista arriviamo in questi villaggi, mai visitati prima da europei, e, data la pericolosità dei luoghi, veniamo accompagnati da ufficiali statali Afrikaaner.
 
 
Più a nord il Namaqualand si estende in alte montagne rocciose: il Richtersveld, che dà il nome ad un parco nazionale, il primo in Africa sorto per contratto tra il Dipartimento Parchi e la locale tribù seminomadi dei Nama.
Il Richtersveld è uno dei deserti rocciosi più aridi del mondo. Qui vivono di pastorizia circa 2000 Nama, continuando a spostarsi con i loro ovini alla ricerca della rarissima erba che cresce in queste radure desertiche e fermandosi parte dell’anno nelle loro tipiche capanne di giunchi.
L’unica fonte d’acqua è il fiume Orange, che segna il confine con la Namibia, recintato e per gran parte sorvegliato da guardie armate e cani addestrati, in quanto qui si raccolgono i diamanti.

Attraversando questa terra mi sono dovuto misurare con l’asprità del deserto, trovandomi nelle stesse condizioni dei Nama, a piedi, trainando a braccia un carretto con l’equipaggiamento.

 
Quando arrivo all’accampamento del ranger sono quasi le 14 del pomeriggio e ho anche un giorno di anticipo rispetto agli accordi presi. Paddy Gordon, il responsabile del parco, è seccato di questo arrivo improvviso e francamente non lo nasconde, mettendomi a disagio.
Terminati i convenevoli torna a mangiare, mentre io aspetto seduto su una sedia fuori dalla casa. Nel pomeriggio mi accompagna con la jeep nel deserto, mi aiuta a scaricare tutto l’equipaggiamento domandandomi quanti chilometri ho intenzione di percorrere al giorno.
Forte della mia esperienza in Namibia l’anno prima, ribatto euforicamente 50/60 chilometri al giorno. Paddy scoppia in una risata, dicendo che al massimo ne riuscirò a fare 20 in un giorno, ma la media non sarà più di 15. Mi saluta dicendomi che se entro sette giorni non raggiungerò l’altro accampamento verranno a cercarmi.
Finalmente solo, non sopportavo più la sua arroganza. Con calma per prima cosa monto la tenda e sistemo l’equipaggiamento, scendo al fiume poco distante per riempire le due taniche di 25 litri e alcune boracce. Poi inizio a montare il carretto; questo, a differenza dei precedenti, è veramente il top, costruito tutto in allumino con tre ruote da 28, cerchioni da mountain bike, ruota sterzante con freno: un vero capolavoro! E soprattutto: questa volta l’ho testato prima di usarlo; cosa che non avevo mai fatto prima con gli altri.
Di buon ora smonto l’accampamento e parto, trainando il carretto con un peso complessivo di 120 chilogrammi: la fatica è immensa anche per la presenza di una pista di sabbia soffice che fa sprofondare le ruote ad ogni metro che percorro. Passate tre ore, stando al gps ho percorso solamente 4 chilometri e sono distrutto: ora capisco l’ilarità del ranger!
Non bevo tantissimo poiché l’acqua non si raffredda più di tanto con il metodo dei tuareg: manca il vento.
Però sono contento, questi posti mi entusiasmano; camminare tutto il giorno sentendo solo i tuoi passi, il tuo respiro e nient’altro. Come se fossi l’unico essere vivente di queste terre.
 
 
Le ore passano lentamente e, a fine giornata, noto con profondo dispiacere di aver percorso solamente 11 chilometri, anche se a me sembrano 100!
Illuminato dalla luce della torcia mi metto a dormire disteso nella tenda; solo un paio d’ore e sono di nuovo sveglio. Esco e controllo che tutto sia in ordine.
Alcuni uccelli notturni svolazzano vicino alla tenda forse perché incuriositi dalla coperta allutermica, situata sopra la tenda, che infrange la luce della luna.
La mattina seguente parto spedito, complice anche il terreno diventato duro; le montagne compaiono d’incanto, avvolgendomi.
Poco alla volta si sale, il sudore cola ininterrottamente dalla fronte e le gocce attirano nugoli di mosche ed insetti che si posano sul viso. L’umidità nei deserti è un evento rarissimo: qui è dovuto alla presenza del fiume Orange che scorre nelle vicinanze.
Verso le 11 sosto per mangiare: riesco a mandar giù a fatica solamente un piatto di riso in busta; sono talmente esausto che le forze sono svanite.

 
Riparto e di tanto in tanto scatto fotografie, bevo, e penso ai parecchi poveri turisti che sono morti dispersi in questi luoghi: alcuni alpinisti hanno perduto l’orientamento e non sono più riusciti a trovare la pista principale, altri perché con la macchina rotta hanno preferito allontanarsi invece di aspettare i soccorsi. Forse è per questo che Paddy non mi ha accolto con entusiasmo: per lui un turista che si perde sono grane, e se solo, come me, aumentano. D’altronde l’ordine per farmi attraversare il Richtersveld è arrivato dal Capo di tutti i ranger del Sud Africa, così come i permessi speciali per andare a raccogliere l’acqua sull’Orange nelle zone di raccolta dei diamanti.
La temperatura non supera mai i 38°C, ma comunque bisogna ricordare che, essendo sotto il tropico del capricorno, il sole alle otto di mattina scalda come da noi a mezzogiorno a ferragosto.

Verso il tramonto raggiungo un largo canyon, tutt’intorno le montagne mi circondano.
Alle 18 il buio fa da padrone e stranamente non sento il cinguettio degli uccelli. Disteso nella tenda penso che questo è proprio strano, quando, improvvisamente, un lampo si scarica con la stessa potenza di mille lampadine, illuminando a giorno la vallata, seguito da un potente tuono che echeggia nel buio. I lampi e i tuoni si susseguono con intermittenza regolare, mi siedo fuori dalla tenda a guardare questo spettacolo emozionante: un temporale in pieno deserto, incredibile!
Come tutte le cose sono belle quando durano poco, ma alle 23 non c’è stato ancora un momento di silenzio, anzi il temporale si è anche intensificato. A mezzanotte e due arriva anche la pioggia! Due minuti più tardi tutto è finito ed ogni cosa torna al suo posto: un forte vento spazza le nuvole, lasciando un cielo stellato da far mancare il respiro, e gli uccelli iniziano a cantare; è ora di andare a dormire.
 

 
Sono in ritardo sulla tabella di marcia; i mio intento è quello di raggiungere i Nama, ma, con questa andatura, il tempo sembra poco.
Marcio per ore e ore consecutivamente facendo brevi soste. L’acqua inizia a scarseggiare: me ne sono rimasti solo una decina di litri, quindi appena possibile mi dirigerò verso il fiume.
La pista che seguo è larga e ben battuta dalle tracce dei pneumatici dei fuoristrada, ma è praticamente sempre in salita. Nel primo pomeriggio raggiungo il bivio che porta al fiume: alcuni cartelli in inglese avvertono che non è possibile oltrepassarli e che le zone sono sorvegliate con vigilanza armata. Per precauzione tengo nella tasca dei pantaloni le due copie che mi autorizzano ad entrare in queste zone: una in inglese e una in afrikaaner.
Parte dell’equipaggiamento l’ho lasciato all’inizio del bivio: è inutile trascinarsi tutto quel peso. Percorro una decina di chilometri prima di arrivare al fiume e, nonostante i cartelli di pericolo, non incontro nessuno; però, riempite le due taniche, riparto immediatamente per evitare eventuali incontri non troppo graditi. Non si sa mai: prima ti sparano e poi ti domandano cosa ti serve!

Tornato sulla pista principale è oramai troppo tardi e riesco a percorrere ancora un paio di chilometri prima che sopraggiunga il buio.
Una salita interminabile si presenta dinnanzi ai miei occhi, così dopo avere lasciato il carretto, proseguo a piedi per capire la pendenza della montagna. Saranno 800 metri di salita ma talmente ripida che dovrò sputare l’anima.
Sono le 8 di mattina: prima che il forte caldo inizi a cuocermi devo superare l’ostacolo!
Il primo tentativo di trainare il carretto fallisce inesorabilmente dopo alcune decine di metri, quindi riparto una seconda volta spingendolo da dietro ma, dopo pochi metri, mi devo fermare e per poco non vengo travolto dal carretto.
 
 
Le ore passano ed alle 9,10 ho percorso circa 300 metri: che rabbia, sto buttando via tutta la mattina.
Prendo la decisione di alleggerire il carretto lasciando parte dell’equipaggiamento ed una tanica: li riprenderò al ritorno.
Con il carretto alleggerito di quasi 90 kg supero il punto critico in un attimo. Per alcuni istanti penso di tornare indietro e prendere il resto dell’equipaggiamento ma è troppo tardi e non posso perder più tempo.
Ora viaggio veramente spedito: la pista è un continuo sali e scendi ma non è impegnativa, ed inoltre il terreno è duro, quindi, se non fosse per le continue pietre che devo evitare, potrei andare ancora più veloce.
Alle ore 14, sotto un cespuglio di rovi, trovo rifugiato un crotalo della specie più velenosa del Sud Africa, e per poco non gli pesto la coda che fuoriusciva dal cespuglio. Fortunatamente mi sono fermato un metro prima, il serpente disturbato si è allontanato, nascondendosi tra alcune rocce. L’ho scampata veramente per un soffio anche perché al mio ritorno vengo a sapere che il veleno entra in circolo in cinque minuti, dopodichè o si ha l’antidoto o si muore!
Cammino senza interruzioni e verso le 17 discendo la montagna: una distesa di sabbia si apre all’orizzonte, solo sabbia e ad ogni passo sprofondo.
Prima dell’imbrunire trovo un accampamento dei Nama o per meglio dire quello che rimane dell’accampamento; non c’è nessuno.
Passo una notte abbastanza insonne anche per il sopraggiungere di un forte mal di schiena.
 

 
La mattina successiva di buon ora vengo svegliato dal rumore di una jeep: sono degli svizzeri che hanno appena attraversato le montagne, meravigliati e increduli della mia performance mi domandano come ho fatto ad attraversare la pista, infatti loro con la jeep hanno sudato sette camice.
Ma, subito dopo, la notizia triste arriva: per arrivare all’accampamento dei ranger mancano 30 chilometri, quasi tutti su pista di sabbia molle! Non riuscirò mai ad arrivare in due giorni; sono stanco, lo sforzo fisico al quale mi sono sottoposto è stato troppo, devo tornare indietro e dovrò anche correre.
Salutati gli svizzeri ripercorro a ritroso l’itinerario del giorno prima; raggiunto l’equipaggiamento, che avevo nascosto dietro ad alcune rocce, svuoto completamente la tanica di 25 litri: devo essere il più leggero possibile per viaggiare velocemente, dovendo essere per domani all’accampamento dei ranger.

Verso le 14 faccio una pausa per mangiare, ma l’accendino non funziona più, e così sono costretto a mangiare il riso crudo mescolato con l’acqua.
Viaggio fino a notte inoltrata, mi fermo per dormire verso le undici e nel pomeriggio del giorno dopo arrivo da Gordon, che mi accoglie sorridendo. Mi chiede se sono riuscito nel mio intento: rispondo di no. Mi conferma che la pista dopo le montagne è dura, ed anche i turisti non esperti s’insabbiano con le jeep: non sarei mai riuscito ad arrivare in due giorni all’accampamento, quindi ho fatto bene a ritornare.
Gordon, contento del mio ritorno e dell’imminente partenza mi dice che trovare i Nama è un’impresa difficile anche per loro; essi si spostano di continuo e alle volte rimangono solo un paio di giorni negli accampamenti.
Verso sera mi raggiunge una guida ed esperto di kajak; insieme il giorno dopo discenderemo parte del fiume Orange.
 
 
Ci trasferiamo con l’equipaggiamento e le canoe sulla riva del fiume; il carretto e il resto lo portano via in macchina e lo ritroverò all’arrivo.
Passiamo la notte in una tenda di paglia; dopo aver cenato a base di pesce ci distendiamo sulle amache finchè il sonno non sopraggiunge.

La discesa non è impegnativa; l’Orange è un fiume largo e le rapide sono davvero poche, ma abbastanza forti in alcuni punti per farci ribaltare in acqua un paio di volte: alla fine dovrò buttare il gps che smette di funzionare.

Certo che ne valeva proprio la pena discendere in kajak il fiume: da una parte le dune di sabbia, gli uccelli che volano a raso dell’acqua in cerca di pesci, l’aria frizzante e fresca.
Pagaiamo lentamente facendoci dondolare dalla corrente; la guida mi chiama in continuazione per mostrarmi gli animali, ma il più delle volte non riesco a vederli.
Percorriamo in tutto 25/30 chilometri. Quando approdiamo sono davvero dispiaciuto: avrei continuato tutto il giorno!
La guida m’invita a casa sua per riposare.
Il giorno dopo mi verranno a prendere per portarmi all’aeroporto.
I Nama non li ho visti ma le emozioni vissute in questo viaggio sono irripetibili !!
 
 
Racconto di Fabio
 
 

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