Racconta un'antica leggenda che quando Dio creò la Siberia decise di sorvolarla tutta, ma il viaggio fu talmente lungo che dalle dita rattrappite per il freddo caddero inestimabili ricchezze; per impedire che gli uomini ne approfittassero, le ricoprì con un altissimo strato di ghiaccio.
La terra addormentata (così le tribù tartare chiamavano la Siberia) si estende
per 8.000 km, dagli Urali al Pacifico. Con la famosa Transiberiana da Mosca a
Vladivostok servono più o meno otto giorni, come mezzo secolo fa, muovendosi in
direzione opposta al sole lungo sette fusi orari.
Nel luglio 1997, alle 3 e 20 del mattino, dal finestrino della Transiberiana
osservavo la notte e pensavo che sarebbe stato bello arrivare con delle vetture
proprie fino a Vladivostok in inverno: neve, ghiaccio, vento, avventura, mistero
e l'emozione della paura. Con degli amici, anche loro amanti dei viaggi, si
decide di provarci nel 1999: sponsor, auto, discussioni varie, imprevisti,
incomprensioni, lavoro di routine e finalmente siamo pronti.
Itinerario
Partiamo con due Kangoo Renault: Andrej, Adalberto, Sandro, Alberto, Franco e
Stefano, pieni d'entusiasmo e voglia di scoprire.
In Bielorussia facciamo tappa a Minsk, a casa di Andrej. Dopo una giornata di
riposo si va a Mosca: sostiamo nella Piazza Rossa, dove incomincìamo a
fotografare la nostra piccola grande impresa.
C'è il sole che ci aspetta sugli Urali, ondeggianti, belli, puliti, armoniosi
come i loro tornanti. Mi fermo a scattare alcune foto e respiro quest'aria
cristallina. Il paesaggio è stupendo: neve, cielo azzurro, qualche camion
sgangherato rompe il silenzio, ma tutt'intorno c'è un'atmosfera magica. Dobbiamo
riprendere la marcia, ma è stato bello isolarsi per alcuni attimi.
Per puro caso a Ufa, centro industriale, facciamo conoscenza con un'équipe
televisiva russa, che tenta lo stesso raid. Ci raccontano le loro esperienze di
viaggio e ci parlano della Russia in generale. Sono simpatici e resteremo
assieme fino al lago Bajkal, poi la loro vettura non potrà più proseguire il
viaggio, distrutta dalle strade russe.
Superati gli Urali, siamo in Asia. Le strade sono perlopiù ghiacciate, ma ogni
tanto le troviamo pulite e lanciamo le nostre macchine a una velocità quasi
europea.
A Omsk siamo ospiti di personalità legate al mondo della cultura, del commercio,
della politica: siamo un po' imbarazzati perché non sappiamo come ricambiare
tanta amicizia. Notiamo la sauna privata, belle macchine, cellulari, case belle
e spaziose e... potere. In Russia la forbice tra il nuovo ricco ed il vecchio
povero si è allargata in modo spaventoso; non esiste il medio. La cosa fa
riflettere: potranno continuare così?
Lungo il percorso i villaggi sono poveri e malinconici, però riescono a darti
emozioni: casette colorate in legno, una babushka cammina nella neve con il suo
carico di cose buone, i bambini giocano con la slitta, un cane cerca un po' di
cibo, c'è un camino che fuma... Ci fermianìo a scattare qualche foto, una
famiglia ci apre la porta di casa e ci accoglie come vecchi amici offrendoci tè,
pane, dolce, biscotti. Quanta ospitalità e generosità da questa povera gente!
Regaliamo loro una bottiglia di vino e biscotti italiani. La babushka ci
ringrazia di cuore. "Adesso tante persone pensano solo a mettere i soldi in
banca - dice - noi siamo contenti di mettere i ricordi nel nostro cuore".
Lasciata la casa, in macchina c'è silenzio: quella nonnina, penso, con una frase
semplice ma profonda ci ha toccati dentro.
Ogni tanto veniamo fermati da poliziotti, che si lasciano fotografare mettendo
in bella mostra i distintivi. Multe prese: due, su quasi 14.000 km: non ci si
può proprio lamentare anche perché le cifre da pagare erano due/tremila lire.
Arriviamo a Novosibirsk. Anche qui siamo ospiti grazie agli amici della
televisione russa. Fa freddo, -20°C, ma la giornata è serena. Girando per la
città abbiamo l'occasione dì conoscere i pescatori sul fiume ghiacciato,
fotografiamo degli sposi, visitiamo il centro con vecchi simboli del socialismo
reale, andiamo a trovare dei missionari italiani. Quando lasciamo la città la
temperatura si è notevolmente abbassata, ma i nostri cuori sono caldi per
l'accoglienza ricevuta.
Il cielo sembra scuro e minaccioso; involontariamente penso alla pioggia, invece
siamo vicini a Kemerovo, zona di miniere, villaggi quasi abbandonati, la gente
non prende la paga da diversi mesi, la situazione è drammatica. Lo smog ha
sporcato tutto; anche la neve qui non è più bianca.
In un piccolo villaggio diamo biscotti, adesivi, collanine e caramelle ai
bambini che ci corrono incontro, i loro visi si riempiono di gioia, i nostri
cuori di tristezza: fra mezz'ora tutto sarà finito. Noi partiremo e loro
resteranno qui a sognare una vita migliore. Speriamo almeno di avergli lasciato
il nostro piccolo ricordo.
Strada e ancora strada. Parliamo poco in macchina, scambiamo qualche opinione,
chiediamo ai passanti se la direzione è giusta, ma le nostre menti sono
assorbite da ciò che vediamo: miseria, visi tristi e rassegnati, case povere,
macchine abbandonate, trattori distrutti, bar al limite della decenza, e quella
speranza che ormai se n'è andata come un fiocco di neve che toccando il suolo
scompare.
Le betulle ci fanno compagnia. Una trojka antica ci rallegra, un vecchio sidecar
ci sorpassa e ci saluta. Sono anche queste piccole cose che fanno grande un
viaggio.
A Krasnojarsk - bella e moderna città - dove i palazzoni del vecchio regime
stonano con il centro bello e lineare, veniamo intervistati dalla televisione
russa, qualche ragazzino ci chiede l'autografo, un anziano ci scatta delle foto.
Siamo tutti un po' eccitati perché domani arriveremo sul lago Bajkal, tappa
fondamentale per riposare un giorno e vedere se le macchine sono a posto.
Ma lo stato delle strade ci fa ritardare di un giorno l'arrivo. Il Bajkal è
completamente gelato: un camion lo percorre da nord a sud; pittoresche casette
formano una bella cornice. I bambini giocano sul ghiaccio, donne anziane vendono
pesce, vodka, birra e la loro amicizia: mi dicono di essere tranquille e felici
perché sulle sponde del lago si vive bene, lontano dai rumori e dai problemi
delle grandi città.
Dopo 500 km. arriviamo a Ulan-Udè. La popolazione è buriata; assomigliano ai
mongoli e anche il centro della città, dove domina la più grande testa di Lenin
di tutta la Russia, è una piccola fotocopia di Ulan-Bator, capitale della
Mongolia. La gente è cordialissima, Andrej è messo a dura prova, vogliono sapere
tutto di noi: chi siamo, dove andiamo, quanto tempo ci fermiamo, come ci
chiamiamo e se vogliamo cambiare dollari.
La stanchezza si fa sentire, ma ci attende ancora il pezzo più duro del viaggio
che ci porterà a Vladivostok, sul Mar del Giappone... il sogno sta diventando
realtà. Adesso dobbiamo correre sul fiume gelato, con uno spessore di circa
ottanta centimetri, per poi risalire nel bosco dove la pista diventa stretta,
insidiosa e piena di buche.
Ci fermiamo parecchie volte a chiedere informazioni ai camionisti o alle persone
che incontriamo nei piccoli villaggi: tutti ci dicono: "penso si vada sempre
dritto". Mi arrabbio con Andrej dicendogli che non bisogna pensare, ma avere una
risposta chiara, perché se sbagliamo pista e rimaniamo senza benzina cosa
facciamo? Andrej mi risponde: "ricordati che siamo in Russia". E' vero, non ci
si può lamentare. Siamo venuti noi a cercare l'avventura.
Sempre dritto. Verso le dieci di sera, lungo il fiume ghiacciato, come per
miraggio, vediamo il cartello con la forchetta: siamo contenti e per incanto
scompare tutta la stanchezza. Il posto è spartano, orgogliosamente pulito, un
gatto sonnecchia vicino alla stufa, un bambino ci guarda con curiosità. Il papà
ci fa accomodare e ci consiglia pilmini, carne e patate; diciamo che va bene e
lo invitiamo a sedersi con noi per fare quattro chiacchiere. Ci racconta la sua
vita, dal suo viso capiamo la sofferenza, ma nello stesso tempo è felice che
qualcuno lo ascolti, si sfoga volentieri, ma non vuole essere ripreso, vecchie
paure mai dimenticate.
Potremmo dormire a casa sua per pochi rubli ma la pista ci chiama, così ci
ritroviamo in macchina e, dopo aver scaldato i motori, si riparte. Incominciano
le rampe ghiacciate; bisogna fare attenzione, una mossa sbagliata potrebbe
costarci cara.
Alle due del mattino buchiamo e con le ultime forze cambiamo la ruota. Verso le
tre troviamo una casa-pensione. Una signora gentilissima ci apre le porte delle
nostre stanze e finalmente possiamo distenderci a riposare per un paio d'ore. I
letti sono vecchi e scomodi, sulle pareti della camera c'è una fotografia, presa
da un giornale, di una bella ragazza. I tubi del riscaldamento avvolgono la
stanza di calore, l'armadio sembra abbandonato da molto tempo, la finestra è
ghiacciata: mi fermo ad osservarla con un sentimento strano, mi sembra un sogno.
La mattina dopo la signora ci prepara tè caldo e biscotti; le regaliamo anche
noi qualcosa: pasta, scatolette di carne, marmellata, olio, passato di pomodoro.
La salutiamo con un po' di nostalgia.
Lasciamo questa casetta in mezzo alla neve e torniamo sulla pista. Una Uaz ci fa
strada e ci porta nella direzione giusta, ma rimane senza benzina; per fortuna
le nostre taniche sono piene e possiamo ricambiare l'aiuto. Fa freddo, la
giornata è limpida, la pista ci accoglie con tutte le sue insidie, ma ormai
sappiamo come prendere buche e avvallamenti senza creare problemi alle vetture.
Neve e ghiaccio ci fanno compagnia in mezzo al bosco, mangiamo una scatoletta di
tonno. I nostri visi portano i segni del viaggio, però restiamo concentrati e
decisi a portare a termine l'impresa.
Dopo venti ore di macchina ci fermiamo, distrutti: mani, polsi, gambe, schiena e
occhi sono provati dallo sforzo. Troviamo una stazione ferroviaria in un piccolo
villaggio, per circa mille lire a testa possiamo dormire qualche ora. Sono circa
le quattro di mattina, la neve brilla nel buio e gioca con le nostre macchine;
completiamo le prassi burocratiche dei passaporti e ci buttiamo a letto vestiti,
non facciamo in tempo a dirci "buona notte" che siamo già tutti addormentati.
Meno quaranta: dobbiamo cambiare una gomma, impresa titanica a queste
temperature, ma dopo un'ora siamo pronti a partire. Dopo quasi 500 km. di piste
tra il fiume gelato e il bosco, dove fare manovra diventa un problema per
mancanza dì spazio, arriviamo a Habarovsk. Finalmente l'asfalto! Corriamo bene
anche perché caricati moralmente dalla meta ormai vicina.
Ma a 300 km. da Vladivostok ecco il Buran: tempesta con vento e neve. La nostra
marcia viene rallentata in maniera spaventosa, dai 90 km/h dobbiamo passare ai
40; è buio pesto e sulla strada si è formata una sinistra lastra di ghiaccio.
Con i fari alti la neve sembra un muro bianco che si erge davanti alla macchina,
i riflessi non sono più quelli di quindici ore fa. Siamo in ballo e poi, in
fondo, il Buran mancava alla nostra collezione di emozioni e di ricordi.
Alle tre del mattino vediamo le prime luci della città, un ultimo controllo di
polizia e arriviamo sotto il cartello di Vladivostok: sono le 3 e 20 del
mattino, la stessa ora di quella notte del 1997.
Ci fermiamo, emozionati, a scattare qualche foto ricordo per noi e per gli
sponsor. Il freddo è insistente, ma viene sopportato con una struggente felicità
che trabocca dal nostro cuore.
Brindiamo e, come per magia, il vento è cessato, l'aria è limpida, la notte
serena, sui nostri volti scavati dalla fatica esce l'ultimo lampo di gioia, una
stretta di mano, qualche pacca sulla spalla e poi via a cercare l'ultimo letto
siberiano, per riposare e incominciare già a ricordare la nostra "grande
impresa". Abbiamo attraversato la "terra addormentata".
Il tempo sembra porti neve quando raggiungiamo Tyumen e il giorno dopo arriviamo
a Porovoskoe, il villaggio di Rasputin, ma ci accoglie un pantano
eccezionalmente alto.
Il tempo pare essersi fermato. Le casette colorate, ma sbiadite, non danno segni
di vita. Un piccolo market pare essere l'unica cosa nuova del villaggio.
L'emozione è grande. Il sogno è diventato realtà. Siamo a Porovoskoe, il
villaggio in cui Rasputin nacque e da cui un giorno partì a piedi per San
Pietroburgo, anzi alla sua conquista.
Cerchiamo Victor e lo troviamo. Ci porta nella sua povera casa, in cui vive con
la zia 93enne, cieca. La casa sa di storia, di fumo, di vodka, di solitudine.
Questo personaggio ci racconta la sua storia. Impreca, gesticola, chiede una
sigaretta, ci sfida ma non ha timore delle nostre macchine fotografiche. Si
crede personaggio, forse un po' lo è mentre ci fissa con quegli occhi chiari.
Cerca di renderli penetranti, fiammeggianti, ma anche se si immedesima, si mette
in posa plastica, si racconta e ci fissa non è Rasputin, non può esserlo.
Parliamo circa un'ora e veniamo a sapere, come già avevo letto in un libro
storico, che la sua bisnonna aveva peccato con Rasputin. Per questo gli è così
somigliante nel fisico, negli occhi, nel vestire, nell'atteggiarsi, nel
portamento, nella sua storia. Però ci è simpatico. Ci offre patate e un bicchier
acqua, ci dice che attualmente non lavora e lui vorrebbe lavorare perché la casa
è semidistrutta e lui e l'anziana zia ne occupano appena un quarto.
Lo lasciamo ai suoi deliri dopo averlo salutato calorosamente. Ci dirigiamo
nella piccola scuola di Porovoskoe, dove consegniamo regali a tutti i bambini.
Le maestre si prodigano per farci vedere le classi, la mensa, il giardino...
Quanta tenerezza e quanta differenza di vita, di ospitalità, di sorrisi. Ognuno
di noi nota tutto questo. Non lo esterna, ma ce lo leggiamo in faccia. Sono
esperienze di vita che non dimenticheremo, che ci faranno bene per il futuro.
Noi ci lamentiamo sempre ed abbiamo tutto, loro invece... hanno un sorriso
spontaneo, trasparente che ammazzerebbe anche un toro.
Siamo un po' tutti più tristi, ma la strada ci aspetta. Una piccola passeggiata
nel fango di Porovoskoe per ricordare la storia e sentire antichi profumi:
"Chissà se Rasputin è passato per questa via? Chissà se ha notato quell'albero
senza foglie che chiede aiuto?" Chissà...
Lasciamo con nostalgia questo villaggio carico di storia e di leggende e
puntiamo le macchine verso San Pietroburgo.
Incomincia a nevicare. Tutto diventa più bello, ma anche più pericoloso.
Raggiungiamo Kurgan per arrivare a notte fonda a Celjiabinsk. E' una città molto
grande, ricca di palazzoni tristi, vie immense e tanto traffico, ma non lascia
il segno. Non sembra di essere in Siberia, a Celjiabinsk. Le città hanno uno
stampo simile, mentre noi siamo colpiti dalle panoramiche, dalla vita nei
villaggi, dai posti di blocco, da quel cielo minaccioso che sembra proteggerci
mentre invece continua a gettare neve. Gli Urali ci attendono...
Aiutiamo una macchina scivolata fuoristrada. L'ambiente è totalmente cambiato.
Siamo a Natale, le casette sono sepolte dalla neve, il vento ci entra dentro, i
nostri volti sono tirati, dobbiamo guidare con la massima prudenza perché un
errore può essere fatale alla riuscita del viaggio, eppure Sandro cerca
l'emozione differente. Va in testa coda, ma tutto si risolve bene, e si prosegue
con la massima calma.
Le tappe si fanno dure. Impieghiamo più o meno il doppio di ore impiegate
all'andata, ma tutto si sopporta con la calma del viaggiatore. Forse questa
lentezza arriveremo a rimpiangerla.
Arriviamo a Nizni dopo una tappa di 12 ore di guida, di neve, di ghiaccio, di
buio. Sembra impossibile, ma in Russia quando la notte cala avvolge tutto: i
fari delle macchine sono sempre sporchi, i camion non danno pace e alzano una
valanga di pantano misto a neve, fa freddo. Siamo stanchi ma non molliamo.
Attraversiamo tantissimi villaggi e in uno di questi ci fermiamo, ospiti di due
vecchietti che con dolcezza d'altri tempi ci offrono la loro casa in cambio di
un po' d'amicizia. Ci parlano della loro situazione, delle loro miserie, ma lui
sbotta deciso: "Abbiamo superato la guerra, supereremo anche questo brutto
periodo!" Poi scoppia in una fragorosa risata. Fatalità russa... Mentre sorbiamo
lentamente il tè che ci è stato servito nelle tazze dei grandi eventi,
osserviamo la povera casa, la stufa calda, un gatto che sonnecchia beato sul
letto... Non c'è problema, dalla sua ha il tempo, la voglia, la fede,
l'ospitalità delle genti russe, mangia con noi una minestra e beve un succo
d'arancia, riprende la valigia , un fardello pesantissimo, ci saluta e si
rimette in marcia, si volta ancora una volta, lo guardiamo con ammirazione;
un'altra lezione di vita, un'altra storia da raccontare, un'altra emozione.
Arriviamo a San Pietroburgo. Visitiamo la città, si respira il Natale. La neve
la rende più bella, romantica, misteriosa. Visitiamo le ultime cose che ci
mancano per completare la storia di Rasputin: la casa Jusupov e il fiume Neva
dove lo hanno gettato dopo averlo assassinato. Chiediamo di Rasputin un po' a
tutti, ma le risposte sono forzatamente poche. Il mistero continuerà... Santo o
avventuriero, profeta o visionario, bandito o gentiluomo, non sapremo mai chi
era veramente Rasputin , ed in fondo è giusto così. La storia deve continuare
con i suoi segreti, con i suoi dubbi, con le nuove scoperte...
A noi rimane il ricordo d'aver toccato la Siberia, la terra che dorme, e forse
senza volerlo ci ha cambiati dentro.
Diario di viaggio di Adalberto Buzzin
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