L'amore per il mare mi aveva portato fino all'isola di Sainte Marie alla ricerca delle balene. Trascorsa una settimana riemergeva un'inquietudine fin troppo nota che mi spingeva a riprendere il cammino.
E' una passione intrattabile quella che ti trascina attraverso luoghi impervi ed
inaccessibili a sfidare l'insondabile.
Questa volta le acque voluttuose dell'oceano m'imprigionavano, non volevano
lasciarmi andare, irretite da un innamoramento condiviso e percepito fino al
doloroso sgomento dell'abbandono.
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Una serie accidentale di circostanze le rendevano ostili. Il tempo inclemente
della costa est gonfiava le onde del braccio di mare che la separa dall'isola. I
collegamenti tra una sponda e l'altra erano interrotti da un mese. La risposta
alle continue sollecitazioni era sempre la stessa: la barca 'est en panne'.
Una mattina decisi che era arrivato il momento di partire.
Mi trasferii zaino in spalla al piccolo porto dell'isola, in attesa.
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Il concetto circolare del tempo, per i malgasci, configura una percezione dello
scorrere delle ore incomprensibile per un occidentale.
Mi astenni dal capire e mi predisposi al divenire.
Un porto di mare come tanti. Vocio, cicaleccio, tramestio, andirivieni di gente
e merci.
Niente si muove sull'acqua.
Scorsi, in tarda mattinata, un barcone in preparazione. Uomini con la pelle
scura indurita dal sole stivavano legname 'mora mora', senza fretta. Mi
avvicinai col fare ardimentoso della lusinga, a compensare l'incertezza e il
bisogno, l'incapacità imbarazzata ad un minimo linguaggio comune.
'Hallo vahza'.
Indico a gesti la traiettoria. 'Combien?'
Sull'ammontare della somma i problemi di comunicazione spariscono come
d'incanto. In perfetto francese, il capitano snocciola il numero di franchi
malgasci necessari. Una cifra esorbitante. Obietto, con veemenza, che non è mia
intenzione acquistare la barca con tutto il carico, ma soltanto usufruire di un
passaggio. Lui sembra di nuovo non capire.
Provo a contrattare.
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Mi maledico per non aver mai fatto lo sforzo di imparare un po' di malgascio
pretendendo, presuntuosamente, che fossero gli indigeni a parlare la lingua dei
colonizzatori. Non potevo fare a meno, al tempo stesso, di ammirare la loro
conoscenza del francese unicamente per ciò che gli poteva far comodo: la
declinazione numerica dei soldi.
Rimasero sulle loro posizioni, irremovibili.
Partimmo nel tardo pomeriggio, col vento che gonfiava le vele.
La traversata, che si prospettava problematica, si trasformò in una lenta,
accondiscendente navigazione. La pioggia incessante delle ultime ore offriva una
tregua, il sole spariva all'orizzonte, infuocando le nuvole di tutti i colori
dell'arcobaleno.
Il dolce movimento dei flutti rifletteva l'armonia dei passeggeri.
Un mezzo di fortuna, una carretta del mare, profughi in fuga o gli ammutinati
del Bounty. Quell'imbarcazione solitaria evocava ogni immagine letteraria,
giornalistica o cinematografica.
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A bordo si festeggiava la libertà.
La libertà di astenersi dall'obbligo sociale dell'intrattenimento, dall'onere
dei discorsi di circostanza.
Niente convenevoli. Ognuno parlava la sua lingua e nessuno capiva una parola di
quello che diceva l'altro. Le risate che ne scaturivano erano la testimonianza
di quanto non fosse necessario un artificio linguistico. La comunicazione
passava attraverso gli sguardi e i sorrisi. L'atmosfera allegra si nutriva di
complicità e condivisione.
Mi offrirono da mangiare e da bere.
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La barca si fermò in un villaggio di pescatori per far scendere le signore con
la loro spesa; riprese il mare in direzione della terraferma dell'isola del
Madagascar.
Arrivati a Manompana salutai i miei compagni di viaggio.
'Vita da Vezo' pensai, orgogliosa di aver vissuto quest'avventura e di essere
sopravvissuta.
Non sapevo ancora che quello che mi aspettava sarebbe stato molto peggio.
O molto meglio, dipende dai punti di vista.
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